Titolo del libro: Palestina 2048
Autore: AA.VV.
Curatrice: Basma Ghalayini
Editore: Lorusso Editore
Anno di pubblicazione: 2021
Numero di pagine: 221
Prezzo di copertina: 14€
Di Enrica Antonini
08.03.2022
Quando, qualche mese fa, ho letto “Il libro della scomparsa” di Ibtisam Azem, ho commentato che trovavo poco efficace il finale. L’autrice immaginava un mondo dal quale improvvisamente tutti i palestinesi erano scomparsi, ma si affacciava appena nell’immaginare l’evoluzione della società investita da un avvenimento di tale portata e non esplorava tutto il potenziale distopico che quell’idea originalissima che aveva avuto poteva generare. Mi ero data la risposta che all’autrice non interessasse la dimensione distopica, ma porre l’accento su come lo Stato d’Israele si sarebbe trovato in difficoltà a definire sé stesso, una volta scomparso il nemico.
Ebbene, leggendo l’introduzione di Basma Ghalayini a questo libro ho capito quanto il mio privilegio (di vivere in un paese non in guerra e di appartenere a un popolo non oppresso) mi aveva fatto mancare completamente il punto, nella mia analisi: il popolo palestinese vive una distopia. Nel presente, nella vita quotidiana, nel vivere accerchiati da muri, armi, filo spinato, nell’essere schiacciati da uno stato autoritario. Non hanno bisogno di immaginarsi come sarebbe vivere in una realtà distopica, perché è esattamente quella in cui già si trovano.
Forse per questa ragione il genere della fantascienza non è mai stato particolarmente amato dagli scrittori palestinesi, che l’hanno probabilmente considerato un lusso in cui non potevano permettersi di rifugiarsi. Il presente crudele e il passato traumatico hanno sempre avuto, sull’immaginazione degli scrittori palestinesi, una presa fin troppo salda, che non ha consentito loro di avventurarsi in fantastiche visioni di un possibile futuro.
(Introduzione, p. 10)
Il ruolo della fantascienza diventa quindi quello di utilizzare il futuro inconoscibile come uno spazio dove riconfigurare il presente, e ardire ad immaginare, magari, una speranza di pace.
Palestina 2048 è una raccolta di racconti di vari autori e autrici, alcuni nuovi, quantomeno nella traduzione italiana e altri invece già noti, come Mazen Maarouf, autore dell’ultimo racconto, sul quale tornerò. Tutti i testi sono stati scritti apposta per far parte di questa raccolta che è un progetto piuttosto ambizioso di esplorazione di “altre fantascienze”. Quando ci riferiamo al genere della fantascienza, infatti, il nostro immaginario collettivo associa a quel termine una serie specifica di caratteristiche che derivano dalla tradizione fantascientifica occidentale. Ma l’idea di futuro che ciascuno di noi ha, non può che costruirsi a partire dal presente nel quale vive, quindi la fantascienza classica ci racconta di stati totalitari e iper-controllanti, quella più moderna include i viaggi nello spazio e nel contemporaneo abbiamo cominciato a preoccuparci anche del cambiamento climatico (quantomeno da un punto di vista letterario). Ma queste sono tutte tematiche scaturite dall’immaginario collettivo occidentale, sono il prodotto delle conseguenze estreme – immaginate – dei nostri comportamenti e riguardano il nostro modo di vivere e la nostra società. E le altre società? Che idea hanno del proprio futuro? Questo è uno dei principali motivi per cui consiglio assolutamente la lettura di questa raccolta.
L’intento di Palestina 2048 era quello di dare il proprio contribuito alla recente ondata di etnofuturismo che sta investendo la fantascienza e la speculative fiction nelle periferie dell’impero, che cerca di strappare il potere della narrazione del futuro dalle mani del colonizzatore / occupante / oppressore; di fornire il linguaggio e gli strumenti della fantascienza – un genere, va detto, creato dal colonialismo – al colonizzato; strumenti che possono essere riproposti per comprendere le persistenti narrazioni del colonialismo capitalista e resistervi.
(Introduzione all’edizione italiana, pp. 15-16)
I racconti sono tutti ambientati a cento anni dalla Nakba e immaginano come potrà essere evoluta la società israeliana e quella palestinese. Sono racconti spesso cupi, che quasi sempre danno per scontata l’esistenza di una realtà virtuale che può essere d’aiuto come deleteria. Nel primo racconto viene descritta una sorta di simulazione nella quale vivono tutti i palestinesi “dormienti”. Esiste Gaza City che è una splendida città sul mare, piena di parchi e dove la gente vive in armonia e pace. Il fratello di Aya, la protagonista del primo racconto, si è inspiegabilmente suicidato e la famiglia è terribilmente scossa dall’accaduto. Ziad comincia a visitare la sorella in sogno e le racconta che la realtà in cui lei e tutti quanti vivono, non è che una menzogna, una simulazione creata per anestetizzarli e soprattutto contenere nuove rivolte. Solo uccidendosi ci si “sveglia”. Ricorda molto il topos di Matrix, ad esempio, e ancora prima della realtà creata di Huxley, ma qui non si parla di un ipotetico complotto mondiale con l’intento di dominare le masse di tutto il mondo, qui il riferimento è a una condizione specifica e storicamente inquadrabile con il risultato di aggiungere forza al messaggio sociale direttamente rapportabile alla realtà quotidiana.
Un altro tema è la creazione di reti sotterranee e corridoi nascosti per superare il muro – tutto, in questi racconti, ruota attorno a un Muro – ben analizzato nel secondo racconto dove si fa un cenno anche al controllo dei rapporti sentimentali: un’intera operazione viene fatta saltare perché il sistema rileva una vicinanza non autorizzata tra una scienziata palestinese e il suo collega di Tel Aviv. Ma il racconto più emblematico, perlomeno rispetto a questa recensione, poiché chiude circolarmente con l’inizio, è proprio l’ultimo, quello di Mazen Maarouf che immagina, come Ibtisam Azem, la scomparsa del popolo palestinese. Ma quelle che nel libro di Azem erano solo illazioni e voci di corridoio, in questo racconto diventano realtà: in un’operazione di pulizia etnica perfettamente orchestrata, lo Stato d’Israele è riuscito a sterminare il popolo palestinese attraverso l’uso di arme batteriologiche. Sono morti tutti. Tranne uno. Un palestinese è rimasto in vita e viene tenuto sotto chiave, rinchiuso in una cella inaccessibile poiché il suo corpo potrebbe ancora contenere tracce di sostanze tossiche e contaminanti. Perché non lo abbiano ancora ucciso e come andranno a finire le cose, lo lascio però scoprire a voi!
Concedetevi la possibilità di immaginare futuri diversi, da una prospettiva che non avreste mai immaginato e leggete Palestina 2048!