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“Volti”. Un viaggio introspettivo alla scoperta dei nostri demoni.

“Volti”. Un viaggio introspettivo alla scoperta dei nostri demoni.

Zaynab Hifni
Volti
Traduzione di Jolanda Guardi
Jouvence, Milano 2020
pagine132, €12,00

di Enrica Antonini

31.01.2022

Volti è un libro cupo. Credo che questo vada sottolineato fin da subito, perché è un libro che non consiglierei in certi periodi della vita. È prerogativa delle grandi opere il saperti mettere faccia a faccia con i tuoi demoni. E questo gioiellino breve, ma intenso – come si suol dire – penetra nell’interiorità di chi legge e fa riflettere a diversi livelli. Non tanto perché le vicende che si trovano a sperimentare i personaggi raccontati da Zaynab Hifni siano propriamente universalizzabili, ma perché innescano considerazioni e riflessioni che – quelle sì – abbiamo fatto tutte e tutti almeno una volta nella vita. Perché mi sento sola? Cos’è l’amore? Esiste un tempo per riparare ai propri peccati? Fedeltà e infedeltà sono ereditarie? O dipendo dalle condizioni in cui ci si trova a vivere? La felicità passa attraverso la ricchezza? O forse la seconda in qualche modo impedisce che si realizzi la prima?

I personaggi di Hifni sono personaggi senza speranza e lo si capisce fin dal primo ingresso che fanno l’uno nella vita degli altri. Sono personaggi senza speranza, perché ingabbiati in uno schema da cui non riescono, per motivi diversi, a emanciparsi. La storia inizia in medias res, con Thurayya e Husayn che discutono di fronte alle carte del loro imminente divorzio. Inizialmente leggiamo la storia dal punto di vista di Thurayya (poi cambierà) che, sebbene non sia costantemente la voce narrante, è il personaggio attorno al quale ruotano tutti gli altri. Thurayya nasce a Gedda, in una famiglia numerosa non molto abbiente e, fin da piccola, sperimenta sulla propria pelle l’ingiustizia della povertà. Diversa dagli altri suoi fratelli e sorelle e animata dal fuoco della giustizia sociale, seppur fatto divampare, inconsapevolmente, dall’invidia verso le sue compagne di scuola più ricche, non si rassegna alle modeste condizioni economiche in cui ha avuto la sfortuna di nascere e fa di tutto per tentare una scalata sociale che la ingabbierà in una vita arida di affetti e che alla fine non colmerà comunque il senso di ingiustizia e di vuoto che la donna continuerà a provare fino alla fine. Dopo la fine del sogno adolescenziale di un matrimonio in grande stile con Fu’àd, amico del fidanzato della sua compagna di classe Nur, ragazza molto ricca nella cui corte di amicizie Thurayya era riuscita a entrare, le viene imposto il matrimonio con Husayn, orfano, commerciante e di certo non candidato, nella mente di Thurayya, a condurla verso il suo sogno di ricchezza e agiatezza. In realtà, a causa di una speculare volontà di emergere e far carriera di Husayn, uomo senza scrupoli, i due riusciranno ad arricchirsi anche più di quanto immaginato da entrambi, grazie a una sorta di “accordo” secondo cui Thurayya seduce i capi di Husayn, concedendosi sessualmente e garantendo a lui tutte le promozioni che lo porteranno ai vertici dell’azienda per cui lavora per poi, in seguito, raggiunta una solida stabilità economica, mettersi in proprio con un business ben avviato e molto redditizio. In realtà il racconto di come prende forma questo “accordo”, che ci viene descritto prima da Thurayya e poi da Husayn, fa emergere tutto il tema della condizione della donna considerata alla stregua di una proprietà del padre, poi del marito (questione che verrà messa in luce anche dal personaggio di Hind, donna con cui Thurayya intratterrà una breve relazione in età più avanzata) e in questo caso viene di fatto concessa come merce di scambio per ottenere una promozione. Quello che mi è piaciuto di più nella narrazione di questa vicenda, è la maniera, assolutamente non vittimistica, in cui l’autrice descrive la scelta di Thurayya. Certamente non le attribuisce un totale libero arbitrio, ma rispetto a una scelta più violenta, in cui magari si poteva descrivere una Thurayya presa con la forza e costretta dal marito ad avere rapporti sessuali con il suo capo del momento, l’autrice sceglie di trattare questo tema da un punto di vista prettamente psicologico. Di fatto non viene espressa nessuna richiesta esplicita da Husayn, che chiaramente caldeggia segretamente la cosa dentro di sé salvo poi essere dilaniato dalla gelosia e dal senso di disagio e inadeguatezza per non essersi guadagnato nulla di ciò che ha ottenuto; la questione viene posta in maniera piuttosto velata:

Ascoltami bene Thurayya. Quest’uomo ha il mio destino professionale nelle sue mani. Può farmi diventare direttore di una branca del Ministero. Ha vaste relazioni con tutti i responsabili più importanti. Io non ho chiesto di vendere la tua anima o di sottometterti a lui. Cosa ci perdi a fargli un po’ di compagnia? Vuoi che restiamo poveri per tutta la vita? Non sogni la ricchezza? Devi sacrificarti un po’ per costruire il nostro futuro. Pensa a nostro figlio Zàhir, vuoi che erediti la nostra povertà? Non parlarmi dei principi, dell’esempio, perché non ci portano il pane (p. 41).

Questo modo di porre la questione restituisce tutto il dilemma morale nel quale sprofonda Thurayya, che, come nel libro di Schnitzler La signorina Else, si trova a dover compiere una scelta impossibile. Accontentare suo marito (lì il padre) o condannare alla povertà la propria famiglia? La violenza psicologica che viene operata sulla giovane Thurayya dà luogo a un delirante dialogo interiore che culmina in un accesso di feroce collera che la porterà a decidere di compiere quello che ormai si era convinta essere il suo destino.

La mia resistenza cedette, gli permisi tutto ciò che voleva, lo lasciai esplorare ogni parte del mio corpo, volevo anch’io portare a termine il mio compito, allontanavo un incubo che aveva oppresso a lungo il mio petto. Quando se ne andò mi diede una scatoletta di velluto rosso […] Scoppiai a piangere non appena se ne fu andato. Ero sconvolta, volevo prendermi a sberle, gettarmi da un’altezza vertiginosa, spaccarmi le ossa. Mi ripetevo: Come ho potuto compiere quest’atto disonorevole? Se mio padre sapesse cosa ho fatto, morirebbe di dolore. Ho distrutto in un attimo quello che ho impiegato una vita a costruire. E mia madre? Se avesse visto questa scena sarebbe svenuta, penserebbe che su di me la sua educazione non ha avuto effetto. Mi affrettai in bagno, mi misi sotto la doccia, lasciai l’acqua scivolare sul mio corpo completamente vestita […] Guardai la scatola posata sul tavolino, allungai la mano, la aprii, gemetti, conteneva un anello di diamanti. Lo infilai sul mignolo, rimasi a osservarlo davanti allo specchio, per la prima volta possedevo diamanti. L’idea di male proibito svanì. Nella mia mente restò solo la felicità di possedere quell’anello che non avevo mai immaginato di possedere un giorno (p. 42-43).

Non è una vittima Thurayya, non del tutto. Sulle prime viene sicuramente indirizzata verso delle scelte che la instradano su un cammino che però a un certo punto decide di rivendicare e utilizzare a suo vantaggio. Dopo il divorzio apre un suo commercio di abiti d’alta moda e manterrà la condizione di agiatezza raggiunta durante gli anni con suo marito, non rinunciando a fare uso delle sue doti di ammaliatrice quando necessario. Se Thurayya è una vittima, lo è di se stessa, della povertà in cui è nata, del suo essere nata donna, dell’ingiustizia del mondo; ed è qualcosa di cui si renderà conto in vecchiaia, quando, preda della nostalgia per la spensieratezza della sua gioventù, ripenserà alla vita che ha vissuto, al rapporto travagliato col figlio, al passato che non torna, alla tristezza che assale quando ci sentiamo così scollati dalla nostra giovinezza.

Concludo, circolarmente, come ho iniziato. Volti è un libro cupo, ma è un viaggio rivolto verso l’interno che consiglio davvero a tutte e tutti di fare.

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